E' del 2011 ma rende chiaro l'evoluzione del concetto di abbandono nella giurisprudenza (ovviamente si consiglia di leggere la sentenza per esteso).
Se il padrone è indifferente verso il suo cane può essere multato
Cassazione penale , sez. III, sentenza 13.05.2011 n° 18892
E' a rischio multa il padrone che trascura il proprio cane. E' quanto ha deciso la Terza Sezione Penale della Corte di Cassazione, con la sentenza 13 maggio 2011, n. 18892 con la quale si afferma che non solo l'abbandono, in sè per sè considerato, deve essere punito, ma anche l'indifferenza mostrata verso il migliore amico dell'uomo può integrare gli estremi del reato.
Secondo il giudice nomofilattico, "tale indifferenza, in controtendenza con l'accresciuto senso di rispetto verso l'animale in genere è avvertita nella coscienza sodale come una ulteriore manifestazione della condotta di abbandono che va dunque interpretato in senso ampio e non in senso rigidamente letterale come pretende il ricorrente, in ossequio al significato etimologico del termine".
Del resto, come specificato dai giudici di legittimità, il concetto penalistico di abbandono è ripreso anche dall'art. 591 c.p. in tema di abbandono di persone incapaci. E anche in tali casi per abbandono si intende non solo il mero distacco, ma anche l'omesso adempimento, da parte dell'agente, dei propri doveri di custodia e cura e la consapevolezza di lasciare il soggetto passivo in una situazione di incapacità di provvedere a sé stesso.
Ciò precisato, anche nell'ipotesi dell'abbandono di animali (art. 727, primo comma, c.p.) viene delineata in modo non dissimile la nozione di "abbandono" da intendersi, quindi, non solo come precisa volontà di abbandonare (o lasciare) definitivamente l'animale, ma di non prendersene più cura, ben consapevole della incapacità dell'animale di non poter più provvedere a sé stesso come quando era affidato alle cure del proprio padrone.
Il concetto della trascuratezza, intesa come vera e propria indifferenza verso l'altrui sorte, evoca quindi l'elemento della colpa che, al pari del dolo, rientra tra gli elementi costitutivi del reato contestato.
Sentenza per esteso:SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE
SEZIONE III PENALE
Sentenza 2 febbraio – 13 maggio 2011, n. 18892
(Presidente Teresi – Relatore Grillo)
Svolgimento del processo e motivi della decisione
Con sentenza del 13 novembre 2009 il Tribunale di Lecce - Sezione Distaccata di Nardo - dichiarava M.G., imputato del delitto di abbandono di animali (art. 727 comma 1 c.p.) colpevole del detto reato e, concesse le circostanze attenuanti generiche, lo condannava alla pena di Euro 1.000,00 di ammenda.
Il Tribunale individuava la responsabilità dell'imputato sulla base di due circostanze: testimonianza del medico veterinario F.E.M. che riferiva il rinvenimento di un cane munito di microchip all'interno dell'abitazione di tale P.R.; dichiarazione di quest'ultimo, attestante il ritrovamento del cane mesi nei pressi della propria abitazione alcuni mesi prima in condizioni di totale denutrizione e malato, cui era seguita dopo qualche tempo la denuncia al servizio veterinario.
Veniva disattesa la tesi difensiva secondo la quale il cane si sarebbe smarrito durante una battuta di caccia, tenuto conto della mancata denuncia di smarrimento del cane da parte del padrone, odierno ricorrente.
Ricorre avverso la detta sentenza l'imputato a mezzo del proprio difensore denunciando contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione ed evidenziando come, in modo del tutto incoerente, il giudice, per un verso ha parlato di certezza della responsabilità del M. per non avere egli denunciato lo smarrimento dell'animale e per avere altri trovato l'animale e per altro verso affermato che la mancata denuncia di rinvenimento del cane rendeva poco credibile la tesi della smarrimento del cane da parte di esso ricorrente.
Altro elemento che, a giudizio del ricorrente, prova l'illogicità e carenza della motivazione è rappresentato dal particolare credito accordato da parte del Tribunale unicamente alle dichiarazioni dei testi del P.M., senza la benché minima considerazione dei testi della difesa che avrebbero, invece, riferito di uno smarrimento dell'animale durante una battuta di caccia e della inutilità delle ricerche compiute nella immediatezza e anche il giorno dopo.
Così come del tutto illogicamente il Tribunale avrebbe tratto elemento di colpevolezza dal rifiuto, non rispondente al vero, da parte dell'imputato, una volta ritrovato l'animale, di riprenderlo con sé.
Con altro morivo di ricorso la difesa denuncia inosservanza e falsa o erronea applicazione dell'art. 727 c.p. dovendosi operare una netta distinzione tra lo smarrimento dell'animale e l'abbandono che presuppone una condotta volontaria.
Correlativamente la difesa prospetta quale condotta criminosa sanzionabile non già l'abbandono del cane ma il malgoverno di animali, condotta oggi depenalizzata e per la quale l'imputato ha già ricevuto la sanzione amministrativa e, a tutto voler concedere, l'ulteriore violazione, sempre di carattere amministrativo, prevista dall'art. 17 n. 5 della L.R.P. n. 12 del 3.4.1995 in termini di mancata denuncia di smarrimento del cane.
Con un terzo motivo la difesa denuncia inosservanza ed erronea applicazione della legge penale (art. 42 c.p.), per avere il primo giudice omesso di accertare la sussistenza dell'elemento soggettivo del reato in termini di dolo o colpa, trascurando anche di valorizzare elementi di natura logica quali l'esistenza del microchip intestato all'imputato che rendeva assai poco plausibile la tesi dell'abbandono volontario.
Inoltre ulteriore vizio di motivazione veniva denunciato il relazione al fatto che la decisione del Tribunale si sarebbe basata su congetture e non su prove, in modo per di più, illogico.
Il ricorso non è fondato.
Tutte le censure rivolte verso la sentenza impugnata afferenti alla omessa o carente o illogica motivazione contengono ad evidenza rilievi di tipo fattuale che implicano una rilettura da parte della Corte della intera vicenda in chiave alternativa rispetto alla ricostruzione effettuata dal Tribunale, come tale non proponibile in sede di legittimità.
È peraltro agevole osservare che il primo giudice, sulla base di un ragionamento, seppure sintetico, pienamente coerente con il complessivo quadro probatorio esaminato e soprattutto logico, ha correttamente concluso per la certezza della condotta di abbandono, desumendola da due elementi ritenuti, a ragione, sintomatici: il rinvenimento dell'animale presso l'abitazione di altri che provvedeva successivamente a fare denuncia al servizio veterinario; la mancata presentazione della denuncia di smarrimento — ove mai tale circostanza si fosse verificata — da parte del legittimo proprietario del cane.
Da qui quella conseguenza, condivisibile sul piano logico, tratta dal giudice circa la poca verosimiglianza della tesi difensiva dello smarrimento, posto che, se ciò fosse davvero avvenuto, proprio perché il cane era dotato di microchip, sarebbe stato logico attendersi che fosse stato il proprietario ad adoperarsi per ritrovare il cane denunciandone la scomparsa.
Un ragionamento siffatto non si presta di certo né ad illogicità, né ad insufficienza, avendo il giudice dato correttamente rilievo a circostanze oggettive (peraltro non smentite dall'imputato per come opportunamente il giudice ha rilevato) e avendo anche valutato razionalmente la irrilevanza della testimonianza resa da chi, accompagnando il M. durante la battuta di caccia avrebbe notato (insieme al M.) la scomparsa dell'animale.
In altri termini il Tribunale, anche a voler dare per credibile in via ipotetica la tesi della perdita, ha poi tratto la logica conclusione che a tale supposta perdita non è mai seguito alcun tentativo men che serio di ritrovamento del cane, così pervenendo alla conclusione di una volontà da parte del M. dell'abbandono.
Tutte le divagazioni fatte dalla difesa circa le contraddizioni in cui sarebbero incorsi i testi P. e F. e circa la valenza non adeguatamente rilevata delle dichiarazioni del teste D.S. (il compagno di caccia del M. in occasione della ritenuta perdita del cane) appartengono al novero di quelle censure di fatto inammissibili in sede di legittimità, non mancando di osservare che anche di tali dati il giudice ha, comunque, logicamente e correttamente dato conto nella sentenza impugnata.
Ma anche l'ulteriore profilo di inosservanza della legge penale, concernente, in particolare, l'errata qualificazione giuridica della condotta data dal Tribunale, non è fondato.
Premesso che la circostanza dello smarrimento è stata esclusa in modo logico dal Tribunale e che in ogni caso condivisibilmente è stato ritenuto che se ciò si fosse davvero verificato, il comportamento successivo assunto dal M. avrebbe dovuto qualificarsi come preciso sintomo della sua volontà di abbandono, la nozione di abbandono enunciata dal primo comma dell'art. 727 c.p. postula una condotta ad ampio faggio che include anche la colpa intesa come indifferenza o inerzia nella ricerca immediata dell'animale.
Colpa certamente compatibile con la natura del reato contestato, versandosi in tema di contravvenzione: con il che non si esige per la punibilità dell'agente soltanto la volontarietà dell'abbandono ma anche l'attuazione di comportamenti inerti incompatibili con la volontà di tenere con sé il proprio animale.
Tale indifferenza, in controtendenza con l'accresciuto senso di rispetto verso l'animale in genere è avvertita nella coscienza sodale come una ulteriore manifestazione della condotta di abbandono che va dunque interpretato in senso ampio e non in senso rigidamente letterale come pretende il ricorrente, in ossequio al significato etimologico del termine.
Significato non è unidirezionale non potendosi quindi condividere la tesi di circoscrivere il significato della parola al concetto di distacco totale e definitivo della persona da un'altra persona o da una cosa, come sostenuto dal ricorrente, ben potendo, nel comune sentire, qualificarsi l'abbandono come senso di trascuratezza o disinteresse verso qualcuno o qualcosa; o anche mancanza di attenzione.
Del resto — sia pure con connotati diversi — il concetto penalistico di abbandono è ripreso anche dall'art. 591 c.p. in tema di abbandono di persone incapaci. E anche in tali casi per abbandono va inteso non solo il mero distacco ma anche l'omesso adempimento da parte dell'agente, dei propri doveri di custodia e cura e la consapevolezza di lasciare il soggetto passivo in una situazione di incapacità di provvedere a sé stesso.
Orbene anche nella ipotesi dell'abbandono di animali - contemplata dal comma 1 dell'art. 727 c.p. — viene delineata in modo non dissimili la nozione di abbandono da intendersi quindi non solo come precisa volontà di abbandonare (o lasciare) definitivamente l'animale, ma di non prendersene più cura ben consapevole della incapacità dell'animale di non poter più provvedere a sé stesso come quando era affidato alle cure del proprio padrone.
Il concetto della trascuratezza, intesa come vera e propria indifferenza verso l'altrui sorte, evoca quindi l'elemento della colpa che, al pari del dolo, rientra tra gli elementi costitutivi del reato contestato.
Se così è, non appare condivisibile la qualificazione della condotta pretesa dal ricorrente sotto lo schema dell'art. 672 c.p., oggi depenalizzato, in quanto il malgoverno degli animali presuppone un comportamento del tutto diverso implicante l'incapacità della persona di governare il proprio animale se lasciato in libertà.
Così come non può essere condivisa la tesi che l'eventuale mancata denuncia di smarrimento costituisca condotta autonoma sanzionabile, sia perché non prevista da alcuna norma incriminatrice, sia perché — come correttamente osservato dal Tribunale — la mancata denuncia costituiva, nel caso di specie, il dato sintomatico della volontà da parte del M. di abbandonare l'animale, disinteressandosi della sua sorte.
E a tale proposito, va anche sottolineato che il primo giudice ha tenuto ben presente l'elemento temporale traendone la logica conseguenza di una precisa volontà da parte del M. avendo fatto trascorrere diversi mesi rispetto alla presunta data di smarrimento, senza assumere la benché minima iniziativa volta a riprendere o ricercare l'animale.
Alla stregua di tali indicazioni deve allora disattendersi l'ulteriore tesi prospettata dalla difesa di una condotta di abbandono necessariamente e solo dolosa, anche perché il concetto di abbandono come delineato dall'art. 727 c.p. non implica affatto l'incrudelimento verso l'animale o l'inflizione di sofferenze gratuite, ma molto più semplicemente quella trascuratezza o disinteresse che rappresentano una delle variabili possibili in aggiunta al distacco volontario vero e proprio.
Se così è correttamente il Tribunale ha escluso che potessero anche profilarsi dubbi sull'atteggiamento psicologico dell'imputato ovvero sulla circostanza di un possibile smarrimento del cane, avendo dato valore ben preciso ad alcuni dati obiettivi valutati in termini di certezza.
Tanto basta ad escludere recisamente l'affermazione del ricorrente secondo la quale il giudice avrebbe fondato il proprio convincimento sulla base di mere congetture, essendo invece il Tribunale ricorso alla logica razionale che - in uno alla valutazione di elementi estrinseci - costituisce la linea ispiratrice della decisione.
Il ricorso va, pertanto, rigettato. Segue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Il caso è abbastanza specifico, ma fa comprendere, seppure da un certo punto di vista, l'obbligo di custodia che il padrone ha nei confronti del proprio cane.
Aggressione del cane del dipendente? Ne risponde anche datore troppo tollerante
Cassazione penale , sez. IV, sentenza 21.01.2013 n° 3124
L’obbligo di custodia degli animali, in relazione a quanto previsto dall’art. 40 co. 2 c.p. (http://www.altalex.com/index.php?idnot=2205#art40), sorge ogni qual volta sussista una relazione di possesso o di semplice detenzione tra l’animale e una determinata persona.[/font]
L’art. 672 c.p. (http://www.altalex.com/index.php?idnot=36776#art672) infatti, si riferisce all’obbligo di non lasciare libero l’animale e di custodirlo con le dovute cautele, possesso da intendersi come detenzione anche solo materiale e di fatto, senza che sia necessaria una relazione di proprietà in senso civilistico.
Sono questi i principi applicati dalla Sezione IV Penale della Cassazione con sentenza 21 gennaio 2013, n. 3124.
Nella specie la Corte di Cassazione ha ritenuto che delle lesioni provocate da un cane di grossa taglia, un pastore maremmano, dovesse essere ritenuto responsabile anche iltitolare di un agriturismo il quale, pur avendo consentito ad un proprio dipendente di collocare il predetto animale presso la propria azienda, ha omesso con negligenza, imprudenza ed imperizia, di esercitare sull’animale la necessaria vigilanza al fine di evitare pregiudizi a terzi, avendolo lasciato libero e privo di museruola sui terreni dell’azienda.
A nulla rilevando il fatto che il suddetto titolare dell’agriturismo non fosse presente al momento dell’aggressione: infatti il proprietario o il detentore di un cane è titolare di una posizione di garanzia collegata al fatto di essere, in quanto tale, tenuto a controllare le reazioni dell’animale e a garantire la sicurezza dei luoghi, e pertanto può essere chiamato a rispondere, ai sensi dell’art. 40 co. 2 c.p. (http://www.altalex.com/index.php?idnot=2205#art40), delle lesioni procurate a terzi.
Di seguito la sentenza per intero:[/font]SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE
SEZIONE IV PENALE
Sentenza 8 maggio 2012 – 21 gennaio 2013, n. 3124
(Presidente Marzano – Relatore Foti)
Ritenuto in fatto
1. - Z.S. e B.R. sono stati tratti a giudizio davanti al Tribunale di Modena, sezione distaccata di Pavullo, per rispondere del delitto di lesioni colpose in pregiudizio della minore C.E., aggredita e morsicata da un cane pastore maremmano adulto mentre si trovava presso l’agriturismo “Il Felicito”, del quale la Z. era legale rappresentante. L’animale era di proprietà di C.L., che l’aveva affidato al padre, C.L., che l’aveva lasciato presso un maneggio ove lavorava il B. che, all’insaputa del C., avendo iniziato a lavorare presso detto agriturismo, l’aveva portato con sé.
Secondo l’accusa, la Z., quale titolare dell’azienda agrituristica “Il Felicito”, ed il B., quale possessore e custode del cane, collocato, con il consenso della stessa Z., presso detta azienda, per negligenza, imprudenza ed imperizia, per avere entrambi omesso di esercitare sull’animale la necessaria vigilanza al fine di evitare pregiudizi a terzi, avendolo lasciato libero e privo di museruola sui terreni dell’azienda, avevano cagionato gravi lesioni alla piccola C., che si trovava presso l’azienda per una lezione di equitazione e che è stata azzannata al capo.
2. - Con sentenza del 19 settembre 2008, il tribunale ha assolto ambedue gli imputati: la Z., per non avere commesso il fatto, il B., perché il fatto non costituisce reato, avendo il primo giudice ritenuto che le risultanze istruttorie non avessero evidenziato, oltre ogni ragionevole dubbio, la fondatezza della tesi accusatoria.
In particolare, con riguardo alla posizione della Z., lo stesso giudice ha ritenuto che la condotta della donna, che aveva predisposto dei recinti per i cani ed aveva impartito ai dipendenti l’ordine di tenerli al loro interno, ovvero legati alla catena o al guinzaglio, portava ad escludere la sussistenza di un concorso causale della stessa nella determinazione dell’evento.
3. - Su appello proposto dalle parti civili C.R. e P.G., genitori ed esercenti la potestà genitoriale sulla persona offesa, la Corte d’Appello di Bologna, con sentenza del 18 novembre 2010, ha ritenuto la responsabilità degli ex imputati per i fatti agli stessi contestati e li ha condannati, in solido, al risarcimento dei danni in favore della parte civile C.E., alla quale ha assegnato una provvisionale di 25.000,00 euro.
La corte territoriale, per quanto riguarda la Z., ha anzitutto rilevato che costei era perfettamente a conoscenza dell’abitudine del B. di lasciare il cane libero di circolare, avendo ella stessa ammesso di avere più volte ripreso il dipendente per tale atteggiamento; ha altresì sostenuto che lo stesso marito e collaboratore della donna, V.M., aveva ammesso di avere visto il cane, almeno in due o tre occasioni prima del fatto, circolare liberamente. Circostanza, quest’ultima, confermata da diversi testimoni, che avevano dichiarato di avere visto l’animale vagare in libertà anche nella zona del ristorante, mentre altri avevano riferito di avere notato il cane legato ad una catena lunga circa un metro e mezzo.
Con riferimento al giorno dell’aggressione, il giudice del gravame ha ricordato le dichiarazioni di un testimone che, attirato dalle urla, aveva avuto modo di notare l’animale, con guinzaglio e catena, essere strattonato dal B., pur non essendo stato in grado di precisare se la catena fosse stata o meno ancorata a qualcosa. La madre della piccola E., poi, aveva riferito di avere visto il cane correre libero ed avventarsi sulla figlia che aveva accennato ad una carezza; la donna aveva anche precisato che l’animale solitamente era libero e tranquillo, tanto che in altre occasioni la bambina aveva giocato con lui, e che lo stesso si trovava nell’agriturismo da 20/30 giorni.
Alla stregua delle emergenze probatorie in atti, la corte territoriale ha ritenuto che, libero o legato ad una catena che non ne impediva i movimenti, il cane, di notevole taglia, collocato in un luogo ove era prevedibile il transito di persone anche estranee all’azienda, costituiva comunque un pericolo per quanti si trovassero a circolare nei pressi; e che di quella non rassicurante presenza non si era adeguatamente interessata la Z. che, quale titolare della struttura, aveva l’obbligo di adottare tutte le misure necessarie per impedire che l’animale potesse arrecare pregiudizio a chiunque si trovasse all’interno dell’azienda, nonché di verificare che le direttive dalla stessa impartite fossero rispettate.
4. - Avverso detta sentenza, propone ricorso per cassazione Z.S., che deduce:
a) Violazione di legge, in particolare dell’art. 40 cod. pen., anche in relazione all’art. 672 dello stesso codice, in relazione alla ritenuta posizione di garanzia riconosciuta all’imputata che, al momento del fatto, si trovava distante dal luogo dell’incidente:
b) Violazione dell’art. 521 cod. proc. pen., in ragione della ritenuta cooperazione colposa - ex art. 113 cod. pen.- rispetto ad un fatto addebitabile unicamente al B., unico custode del cane;
c) Violazione di legge, in particolare degli artt. 43 e 113 cod. pen., anche in relazione agli artt. 49 cpv e 672 cod. pen.
Considerato in diritto
I tre motivi di ricorso, pur separatamente articolati, attengono all’affermata responsabilità della Z., dalla stessa decisamente contestata, di guisa che essi possono essere congiuntamente esaminati.
Tanto premesso, osserva la Corte che il ricorso è manifestamente infondato.
Il giudice del gravame ha, invero, chiaramente e correttamente rilevato che la posizione di garanzia riconosciuta alla Z. era strettamente collegata alla condizione di titolare dell’agriturismo ove il cane, con il consenso della stessa, era stato portato dal B.
In tale qualità, ha giustamente sostenuto lo stesso giudice, l’odierna ricorrente avrebbe, non solo dovuto adottare tutte le precauzioni necessarie ad evitare che l’animale potesse recar danno a chiunque si trovasse all’interno della struttura, ma anche accertarsi che le disposizioni impartite fossero puntualmente osservate.
A tale obbligo, ha ritenuto la corte territoriale che Z. non avesse adempiuto, posto che, anche a voler scegliere la tesi alla stessa più favorevole, il cane era tenuto legato ad una catena che non ne impediva i movimenti ed in un luogo che non era precluso al transito delle persone che frequentavano l’agriturismo.
Tanto, secondo il coerente argomentare della stessa corte, era sufficiente a sostenere la responsabilità della titolare della struttura, alla quale spettava di garantire la sicurezza dei luoghi e che avrebbe dovuto imporre la collocazione dell’animale in luogo del tutto precluso al passaggio di estranei. Peraltro, se poi si volesse dar credito ai testi che hanno dichiarato di avere notato il cane aggirarsi liberamente all’interno della struttura, persino nei pressi del ristorante, si avrebbe un quadro ancor più decisivo a carico della Z. che, secondo quanto accertato dal giudice del gravame, era perfettamente a conoscenza dell’abitudine del B. di lasciare il cane libero di circolare, avendo ella stessa ammesso di avere più volte ripreso il dipendente per tale atteggiamento.
Tale essendo il quadro probatorio pacificamente emerso dall’istruttoria dibattimentale, l’odierna ricorrente non può certo eludere le proprie responsabilità; nulla, peraltro, rilevando la circostanza che essa, al momento del fatto, si trovasse lontana dal luogo dell’incidente. La ragione dell’affermata responsabilità dell’imputata, invero, va ricercata a monte, cioè nell’avere la stessa, come già osservato, da un lato, tollerato la presenza di un cane di grossa taglia ed aggressivo in luoghi frequentati da persone estranee all’azienda e persino da bambini; dall’altro, nel non avere impartito le necessarie istruzioni per evitare incidenti come quella poi verificatosi e nel non essersi accertata del rispetto delle stesse.
Certamente non condivisibile è poi il riferimento, nel secondo dei motivi proposti, ad una presunta violazione dell’art. 521 cod. proc. pen., dedotta sul rilievo che la Z. sarebbe stata erroneamente “ritenuta proprietaria-possessore-detentore-custode del cane”. La corte territoriale, invero, ha solo, legittimamente e motivatamente, riconosciuto, seguendo l’impostazione accusatoria articolata nel capo d’imputazione, che la Z, nella riferita qualità, avrebbe dovuto intervenire per garantire la sicurezza di quanti si trovavano all’interno della struttura.
Il ricorso, d’altra parte, oltre che palesemente infondato, si presenta generico, laddove muove critiche su questioni di carattere generale senza tuttavia concretamente correlarsi con le argomentazioni poste dalla corte territoriale a sostegno dell’impugnata decisione.
In conclusione, il ricorso deve essere dichiarato inammissibile e la ricorrente deve essere condannata al pagamento delle spese processuali e di una somma, in favore della cassa delle ammende, che si ritiene equo determinare in euro 1.000,00.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro 1.000,00 in favore della cassa delle ammende.
Fonte: Altalex